Chiesa, ricchezza e luoghi comuni

di Aldo Vitale
Tratto da La Bussola Quotidiana il 17 settembre 2011

«Versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio»; il durissimo ammonimento non proviene dal furore utopistico del sindacalismo del XIX secolo; né tanto meno dalle agguerrite rivendicazioni di qualche esponente di un partito rivoluzionario socialista del XX secolo; né da uno dei nuovi guru della finanza etica così di moda oggi; sono alcune delle più severe parole della tradizione cristiana contenute nella Bibbia nel libro di Siracide (34, 22).

Dunque, la speciosa critica di quanti pretendono di insegnare alla Chiesa come gestire il danaro che essa riceve nei più svariati modi (otto per mille, donazioni, eredità, offerte, lasciti, ecc) potrebbe essere chiusa ancor prima di affrontarla profondamente, ricordando semplicemente che la dottrina cristiana, precedentemente al socialismo e meglio di ogni altra forma di moralismo storicistico, ha insegnato all’uomo il giusto rapporto con la ricchezza e con la povertà. Ma si può affermare che il problema proprio in ciò consista.

La gran parte degli attacchi rivolti alla Chiesa sui beni e gli averi di sua proprietà, non sembrano altro che dei pretesti ideologici determinati dalla mancanza di conoscenza della dottrina e dell’opera del magistero circa la ricchezza e la povertà. Non si può non rilevare tuttavia, che alla base vi è un problema ancor più fondamentale: cioè l’equivocazione della intera concezione vetero e neo testamentaria sulla ricchezza e sulla povertà.

Recuperare il senso autentico delle Scritture significa, dunque, non solo ripercorrere una corretta ermeneutica dei testi sacri alla luce degli insegnamenti della tradizione della Chiesa, ma ricordare il basilare compito svolto dalla dottrina cristiana in genere e del magistero in particolare per lo sviluppo della sensibilità verso i poveri e gli emarginati da un lato, così come verso la creazione dei presupposti per il nascere e lo svilupparsi del capitalismo dall’altro (in quest’ultimo caso la storiografia più recente, si pensi tra i tanti e più blasonati a Rodney Stark che molta documentata attenzione ha rivolto a questi temi, compie ogni giorno passi da gigante).

La critica normalmente rivolta alla Chiesa si fonda sul noto passo del Vangelo di Matteo in cui Cristo ammonisce:«è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt. 19, 24). Tuttavia il brano appena ricordato deve essere letto sistematicamente con l’insieme dei precetti e degli insegnamenti di Gesù.

Si pensi in particolare all’episodio narrato nel Vangelo di Marco:«Gesù si trovava a Betània nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: “Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri!”. Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: “Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre» (Mc. 14, 3).

La cultura contemporanea distratta dai bisogni della povertà dal moralismo del pauperismo, non riuscerebbe mai a venir a capo del senso del predetto passo evangelico; anzi, questo non avrebbe proprio alcun senso. Perché mai non vendere il prezioso olio per sfamare cristianamente i poveri?

Perché Cristo non era né un contabile, né un rivoluzionario marxista ante-litteram.

Cristo non ha mai voluto creare una dicotomia di santi e peccatori basata sulla dichiarazione dei redditi; questa è, sebbene ampiamente diffusa anche tra gli stessi cattolici, una lettura materialista, travisante e francamente ingenua della dottrina cristica.

Occorre tener conto, infatti, anche di Mt. 5, 3 «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli», riproposizione in chiave affermativa di Mt. 4, 4:«Non si solo pane vivrà l’uomo». In buona sostanza Cristo ha voluto evidenziare il carattere spirituale dell’uomo, che cioè questo non è mera corporeità, non deve dedicarsi al solo aspetto materiale dell’esistenza, che, in definitiva, come ha puntualizzato il filosofo Nikolaj Berdjaev, «la persona non è una categoria biologica, ma etica e spirituale». Similmente il Vangelo non fornisce dottrine economiche, materiali, “biologiche”, ma insegnamenti teologici, morali e spirituali.

Per l’autentico pensiero cristiano, infatti, la ricchezza, la proprietà, gli averi, non sono dei mali in se stessi, ma malvagio può essere l’uso che di essi si può fare. Anche in questo senso gli esempi sarebbero molteplici ed impossibili da riportare tutti.

Tuttavia si possono citare, a titolo meramente esemplificativo, in primo luogo Clemente di Alessandria che, già nel III secolo nel suo celebre Quis dives salvetur (Quale ricco si salva), così precisava:«Il detto “Vendi quello che hai”, che cosa vuol dire? Non è, come alcuni intendo in modo superficiale, che ordini di far gettare del patrimonio che si ha e di rinunciare alle ricchezze, ma di allontanare dall’anima una particolare mentalità attinente alle ricchezze, ossia l’attaccamento, il desiderio eccessivo, la bramosia morbosa, gli affanni, i triboli dell’esistenza, che soffocano il seme della vita»; in secondo luogo Basilio di Cesarea che, nell’omelia sul Buon uso delle ricchezze, nel IV secolo così redarguisce il comportamento non etico del ricco schiavo dell’accumulo:«Lo splendore dell’oro ti rallegra oltre misura, ma non pensi quanti e quali gemiti dell’indigente ti seguono».

In conclusione confortano, su questa strada, le precise ricognizioni storiche operate proprio da uno specialista, il celebre economista Achille Dauphine-Meunier che nel suo trattato La Chiesa ed il capitalismo del 1955 così scrive:«Per i Padri, la ricchezza non è riprovevole in se stessa ma in quanto può divenire pericolosa per la vita cristiana. Loro condannavano l’attaccamento alla ricchezza, l’avidità e la cupidigia nel perseguirla, l’ostinazione nel possederla».

La Chiesa dunque conosce ben prima e più attentamente di ogni altra istituzione il corretto rapporto che ciascuno deve curare con ciò che possiede, così che qualunque dichiarazione intesa a sostenere il contrario si appalesa per ciò che in realtà è: un semplice pretesto ideologico.